VISIONE DI UN'OPERA

Titolo: Uno
Autore: Kiara Basile
Inserita: 16/10/2003

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UNO

Quella storia andava avanti da mesi ormai.
Ogni notte la vedeva, lunghi capelli scuri e occhi della stessa sfumatura di castano, viso pallido e labbra rosse.
Ogni notte sentiva il suo profumo, come di pesca, a volte, di fragola, altre.
Ogni notte sentiva tra le dita i suoi fianchi sotto i vestiti leggeri e le guance morbide sulle labbra.
Ma quello che oramai non sopportava più era che ogni notte, ogni santissima notte, dopo avergli sussurrato –Ti ho cercato per molto tempo e non mi par vero di averti finalmente trovato- ed averlo baciato, scompariva sempre nel nulla, lasciandolo solo e sveglio nel letto scompigliato.
Ricordava bene quando era cominciato, circa due mesi prima. Dopo una festa durata un’intera notte si era addormentato all’alba in un prato coperto di margherite, con ancora la bottiglia di Martini in mano, e, nel dormiveglia che precede l’addormentamento, aveva visto, o forse sognato, quella ragazza che camminava a piedi nudi, indossando solamente un velo colore del cielo, vicino a lui, guardando alberi ed uccelli e fermandosi ogni tanto per cogliere un fiore da aggiungere alla corona che stava componendo.
Da quella mattina i loro incontri notturni erano diventati sempre più frequenti ed intensi ed ora lui non ne poteva più di quei sogni e di quella fanciulla, che per troppo tempo lo avevano tenuto lontano dalla vita reale. Infatti, dopo quel mattino aveva passato i giorni seguenti cercandola nei campi, nel bosco, nelle cascine vicine a quella in cui si era tenuta la festa, ma non l’aveva trovata, e i sogni continuavano. Allora aveva cominciato a distaccarsi dal mondo vero e reale cominciando a pensarla come la sua amata, piano piano aveva perso tutti gli amici e aveva smesso di uscire per divertimento, gli erano rimasti l’università, gli esami e le compere come unici motivi dell’allontanarsi dalle mura di casa, nel resto del tempo sognava quella ragazza ad occhi aperti, immaginava cosa gli sarebbe piaciuto che fosse successo la notte, cosa avrebbe voluto che dicesse e facesse, quei sogni gli parevano così veri che se ne convinceva e quando qualcuno lo contraddiceva sulla loro realtà o la fanciulla si comportava nel modo solito senza rispettare l’immaginario copione che nel giorno lui aveva scritto nella mente, si intristiva e, allo stesso tempo, si arrabbiava, con se stesso, con gli altri che non lo capivano, con la fanciulla dei sogni.
Proprio dopo una discussione con la madre che, a differenza del resto del mondo, non si era rassegnata a considerare il figlio un pazzo con sempre la testa fra le nuvole, si era steso nel suo grande letto a due piazze, avvolto nel piumone e abbracciato al cuscino. Il sonno non aveva tardato ad arrivare e, con lui, la bellissima regina dei suoi sogni. Ma quella notte non aveva il solito sguardo pieno di gioia, i suoi occhi scuri erano arrossati dal pianto, come anche le sue belle guance lisce. Trattenendo singhiozzi e lacrime a stento, ravviandosi i capelli spettinati, gli disse –E’ per te giunto il momento di aiutarmi. Tu sei l’unico che può farlo, sei nato predestinato ad aiutare me ed il mio popolo, che poi è anche il tuo. Ora devo andare, a presto dolce amore mio-. Detto questo, scomparve, senza neanche donargli il solito bacio, e lui si risvegliò di soprassalto tutto sudato. Si strofinò gli occhi e guardò l’orologio: le tre e mezza. Era ancora notte e si sdraiò nuovamente per dormire ancora qualche ora, fino a quando l’incessante trillo della sveglia lo avrebbe svegliato alle sette e mezza ricordandogli

l’esistenza di un mondo reale, dove chi salta le lezioni all’università e non dà gli esami guarda la laurea col cannocchiale.
Dopo la lunga giornata che aveva passato, sdraiarsi al caldo della coperta e chiudere gli occhi gli parve la cosa più bella che potesse mai esistere sulla terra. Quando cadde nell’abbraccio di Morfeo la ragazza comparve: stessi occhi tristi e voce tremula della notte prima. Dopo essersi seduta a cavalcioni di un grosso ramo in cima ad un albero, alzando gli occhi e guardando fisso il ragazzo, cominciò –Forse, ieri sera sono sparita troppo in fretta e tu ti sarai domandato il significato delle mie parole ma il dolore che provavo era così forte che non mi sarebbe stato possibile nemmeno ripensare a tutte le cose che ci sono accadute e che ti avrei dovuto dire. Ora sono pronta a raccontarti tutto-. Detto questo face una pausa per bagnarsi le labbra e mangiare un fiore, poi rialzò le palpebre e, facendo un visibile sforzo, cominciò la
narrazione –Molto tempo fa io e te governavamo su Eldoras, un magnifico regno felice e pacifico. Eravamo amati da tutti, corte, consiglieri, sudditi. Il sole splendeva caldo sui nostri prati verdi ed i nostri alberi erano sempre coperti di fiori colorati. Ignoravamo completamente l’esistenza di Romoaldo, un perfido e meschino commerciante che tramava per spodestarci. Infatti nel suo retrobottega nascondeva una strega che, convinta con la promessa di diventare regina, stava preparando una malefica pozione contro di noi. Una mattina arrivarono dei cioccolatini al palazzo, come dono di un re di un regno lontano, da noi mai sentito nominare. Nonostante questo, noi due ne mangiammo uno a testa e da quel giorno sul nostro regno cadde la sventura. Tu fosti trasportato nella dimensione in cui ti trovi ora e condannato all’oblio e io venni in breve tempo spodestata dal trono da Romoaldo. Il suo governo fu fin dal principio specchio della sua crudele malvagità e velocemente il nostro regno si trasformò in una landa desolata governata dall’odio, dove si ignorano generosità ed amore. Romoaldo non mantenne mai la promessa fatta alla strega e la condannò all’esilio ed alla perdita definitiva dei poteri. Sposò una giovane campagnola, cattiva forse più di lui, che tiene rinchiusa nel palazzo a causa, si dice, della sua incredibile bellezza, capace di abbagliare chiunque le sia davanti. Io, dopo essere stata spodestata e rinchiusa nelle segrete del nostro castello, sono riuscita a liberarmi e scappare. Dopo un viaggio durato mesi che ebbe come meta ogni paesino, grotta, casetta su di un albero e boschetto degli altri regni, trovai la strega che, ancora irritata dal comportamento di Romoaldo, acconsentì ad aiutarmi a tornare sul trono e mi confidò di aver perso i suoi poteri ma di conservare ancora il suo vecchio libro di pozioni, per le quali, mi spiegò, non sono necessari poteri magici ma solo un grande pentolone e i giusti ingredienti. Sfogliato a lungo quel vecchio librone polveroso trovammo l’incantesimo che faceva per noi. Io dovevo solo trovarti e raccontarti tutta la storia. Domani mattina troverai un calice colmo di un liquido azzurrino: è una pozione che ti farà ritornare nella nostra dimensione e ricordare tutto quello che è successo. Ieri sera parlavo di una predestinazione. La strega mi ha anche confidato che, quando sei nato, aveva ricevuto una premonizione: tu eri destinato a salvare il regno da una grande minaccia e solo tu potevi riuscirci. Ora devo andare, è quasi l’alba. Ti prego, bevi la pozione-. Detto questo lo baciò e scomparì. Lui si trovò sveglio, supino. Fissò per qualche minuto il soffitto e poi si decise ad andare a vedere se il calice c’era veramente. Sul grande tavolo di noce del salotto vide uno splendido calice d’oro, tempestato di pietre preziose, pieno, come aveva detto la fanciulla, di uno strano liquido azzurrino. Lo annusò, odorava di ananas. Testò la sua densità con un dito, pareva acqua. Dopo aver leccato il dito che aveva bagnato decise di provare a

berlo. Subito dopo aver poggiato il calice vuoto sul tavolo si ritrovò in una capanna di legno, seduto attorno ad un tavolo con, di fronte, la fanciulla del sogno e, alla sua destra, una donna sulla quarantina, con lunghi capelli neri mossi e occhi dello stesso colore, sguardo impenetrabile e sorriso maligno.


DUE


-Benvenuto Mìricolas. Sei nella terra di Susdar, a cento sarec da Eldoras, ed io sono Xaria, Armise ti avrà parlato di me. Sono la strega che ha composto la pozione che ha permesso a Romoaldo di salire al trono e ridurre alla rovina il bel regno che prima Eldoras era. Per questo
sono già stata punita dallo stesso mandante dell’infuso con l’esilio e la completa perdita dei poteri ed ora voglio vendicarmi. Per questo ho accettato la proposta fattami da tua moglie, di
aiutarvi a riconquistare il vostro bel regno. Per questo ci servivi tu e ti abbiamo riportato indietro perché operi la riconquista e riporti la luce chiara del sole su Eldoras ed i suoi antichi verdi campi. Te la senti?-
Era frastornato. Non capiva niente. Dov’era? Che cosa stava succedendo? Cosa volevano che facesse? Si guardava intorno con agitazione e non riusciva a mantenere gli occhi fissi su di un punto per più di un secondo, la tensione non glielo permetteva. In un istante il suo sguardo incontrò quello della bella fanciulla dei sogni e si fermò per un po’.
Era più bella del solito. Armise, era così che si chiamava. Che bel nome, pensò, doveva essere nato con lei perché rifletteva interamente la particolarità di quella ragazza.
E così loro due erano sposati, eh? Neanche nella vita precedente aveva avuto dei brutti gusti in fatto di donne…
Ad un tratto la mente si risvegliò dal letargo nel quale era caduta mentre faceva questi pensieri e si ricordò che aveva una domanda a cui rispondere. –Cosa dovrei fare, esattamente?- diede risposta con un altro quesito. Le due donne si scambiarono un breve sguardo e Armise cominciò a parlare -Come ti ho spiegato nel sogno, tu sei nato con la missione di salvare il regno in caso di pericolo. Dovresti riuscire ad intrufolarti nel castello ed ad accoltellare Romoaldo con questo pugnale magico- disse estraendo dal suo mantello una spada tempestata di gemme, -Cosa dovrei fare io? Siete impazzite tutte e due? Io, un ragazzo normalissimo appena arrivato da un’altra dimensione dove vivevo benissimo, dovrei rischiare la vita introducendomi di nascosto in un castello che non conosco e rischiare la prigione uccidendo un uomo solo per salvare un reame completamente immaginario? Non se ne parla neanche per scherzo care mie…no, no-. Detto questo si alzò e uscì dalla capanna.
Il mondo fuori era completamente diverso da quello che era abituato a vedere uscendo della porta della sua casa.
Innanzi tutto le strade erano strette, affollate, non asfaltate ed invase da bancarelle di legno sulle quali strani commercianti esponevano le loro strane merci. Un fabbro forgiava ferri per cavalli, un ceramista faceva vasi al tornio, le verdure e la frutta esposte sembravano strane, somigliavano a quelle del negozietto di prodotti biologici all’angolo con Gordon Street al quale faceva visita quasi ogni giorno. Ah, cara Gordon Street! Che bei ricordi gli suscitava

quella via. Lei, coi suoi quattordici anni ed i capelli rossi. Lei, col suo viso pieno di lentiggini e le mani fredde. Lei, con la sua estrema dolcezza ed i suoi baci felici. Lei, col suo nome impronunciabile e l’amore negli occhi. Era la prima ragazza che avesse mai amato e se n’era innamorato proprio lì, nella gelateria di Gordon Street, chiacchierando, con davanti una coppa di gelato al cioccolato.
Immerso nei ricordi e nei pensieri non si era accorto di aver camminato per chilometri. Era in una terra molto diversa da quella dalla quale era partito, gli alberi brulli e la terra nera e secca infondevano tristezza. Si avvicinò ad un uomo e gli chiese –Mi scusi signore, saprebbe dirmi dove mi trovo e come posso tornare a Susdar?-. Quello ruotò poco il capo e rispose –Sei nella terra di Eldoras e per andare a Susdar devi voltare le scarpe e camminare per centodieci sarec. Ed ora sparisci straniero-. Detto questo il contadino se ne andò con una velocità tale da non permettere a Mìricolas neanche di ringraziarlo.
Decise tuttavia di seguire le indicazioni dell’ agricoltore, tanto, giuste o sbagliate che fossero, non ne aveva di più affidabili da seguire.
Arrivò alla capanna che era ormai notte. Entrando si aspettava di trovare il buio più assoluto e il silenzio rotto solamente dai respiri delle due donne, invece trovò Armise e Xaria sedute al tavolo, negli stessi posti del pomeriggio, che si guardavano con aria interrogativa e triste. Quando entrò la felicità si dipinse sui loro volti. Lui chiuse la porta, si sedette al tavolo e cominciò a parlare –Devo comunicarvi la mia decisione definitiva. Oggi ho camminato fino ad Eldoras. Sono rimasto sconvolto dalla tristezza di quei luoghi e dalla scortesia degli abitanti. Ho deciso di aiutarvi perché, anche se non mi ricordo niente della mia vita in questa dimensione, non posso sopportare di poter fare qualcosa per migliorare la vita in questi luoghi e non farlo-. Detto questo la gioia esplose sui visi delle due donne e pervase i loro corpi. Era così contagiosa che intaccò anche l’animo del ragazzo. –Domani partiremo per la capitale di Eldoras: Baramist. E lì daremo vita al piano che ti spiegherò durante il cammino-.
La notte trascorse tranquilla e felice per i tre, che si svegliarono all’alba e si misero in viaggio.
Non ci misero molto a raggiungere Baramist ma il viaggio fu ugualmente arduo e denso di pericoli.

TRE

Appena usciti da Susdar infatti entrarono in un fitto bosco, pieno di rovi irti di spine appuntite ed aguzze, alberi secolari dagli enormi tronchi nodosi e le radici annodate fra loro, quasi con l’intento di formare una tela disordinata ma terribilmente fitta, un luogo colmo di ricordi. Si poteva sentire nell’aria, si respirava. Aleggiava ovunque il profumo di antiche battaglie, di antichi re, di antiche vittorie e sconfitte. Stare in quella foresta era come stare in un libro di storia per Mìricolas. Si guardava intorno con spavento e curiosità, timore e interesse. –Che strano, non credo di aver attraversato questo bosco ieri, me ne ricorderei sicuramente. Come mai procediamo per questa via? Mi sembra molto più pericolosa ed impervia di quella percorsa da me-,
-Infatti lo è- rispose la strega, -Questa è una delle vie più gremite di pericoli di tutto il Paese ma è anche una delle poche che non pullulano delle fedeli ed onnipresenti spie che Romoaldo ha mandato per il Paese per essere informato in caso uno dei suoi esiliati non rispettasse la

sua decisione. Probabilmente tu non ne hai notata nemmeno una. Di giorno sono gli abitanti più normali ed insignificanti che si possano immaginare, sono vestite come persone comunissime, si comportano da cittadini modello e non fanno niente per attirare l’attenzione su di loro, ma di notte escono, indossano mantelli neri e cavalcano altrettanto neri cavalli fino ad arrivare alla casa del più vicino contatto del re dove riferiscono se hanno visto o sentito qualcosa di insolito. Per questo motivo non possiamo arrivare a Baramist attraverso la via Mathis, quella che hai sicuramente percorso tu, ma dobbiamo adattarci ad un lungo, pericoloso e faticoso viaggio attraverso i boschi più bui e le montagne più impervie-. Detto questo, Xaria sorrise al ragazzo e allungò il passo aggiungendo –Forza, dobbiamo raggiungere la metà della foresta prima che il sole cali anche su questo giorno-.
Quella sera, dopo aver cenato con dei frugali frutti di bosco arrostiti su di un altrettanto frugale fuoco, si distesero tutti e tre accanto alla calda fiamma.
Ad un tratto la fiamma si spense e Mìricolas, che era ancora sveglio, vide avvicinarsi un’ombra scura. Subito svegliò le sue compagne di viaggio e le informò di ciò che aveva visto. Un’espressione impaurita apparve sul viso della strega che gli ordinò di portare Armise
sull’albero più alto sul quale fossero riusciti a salire e di rimanerci fino a quando lei non avesse dato il segnale. Da lassù, mezzi nascosti dalle fronde degli alberi, i due ragazzi non riuscirono a vedere molto di quello che stava succedendo sotto di loro, una sfavillante luce sembrava muoversi e la strega gridava strani incantesimi in una lingua sconosciuta ad ogni movimento del bagliore. Alla fine la luce scomparì improvvisamente ed il buio notturno tornò a regnare in quella movimentata notte.
Il giorno dopo il viaggio dei nostri tre compagni riprese. Uscirono finalmente dalla foresta e apparve loro un’enorme pianura verde, -Eccoci qua, coraggiosi ragazzi miei. Questa è Ihlys, la pianura della felicità, ed è anche l’unico luogo tranquillo e sicuro che attraverseremo durante il nostro viaggio perciò godetevi questa giornata perché poi ci aspettano due giorni su Lathos, la montagna che vedete all’orizzonte, il monte più alto e difficile da scalare del Paese-.Quella che all’inizio era parsa ai due ragazzi un’infinita distesa verde che poteva essere attraversata solo con giorni e giorni di cammino, si dimostrò non molto più estesa di una cittadina di medie dimensioni; infatti ci misero solamente dall’alba al tramonto a percorrerla.
Quella fu una giornata fantastica per tutti e tre i viaggiatori: Xaria trovò tra le numerose erbe che crescevano spontanee in quel paradiso molte piante utili per le pozioni che sarebbero servite arrivati a Baramist; e Armise e Mìricolas passarono tutto il giorno come due fidanzatini adolescenti, tutti baci e coccole, che non vedono altro che luce e felicità per il loro avvenire.
Sul far della sera, quando il giallo e caldo Sole va a coricarsi per lasciare il posto alla chiara e fredda Luna, arrivarono ai piedi di Lathos. Tutti e tre si meravigliarono di quanto fosse enorme e imponente. La base era di roccia grigia e massiccia, tanto larga da rendere impensabile il girarci intorno. Più si saliva con lo sguardo più il bianco della neve ricopriva il bigio della roccia, fino ad arrivare alle altissime e impervie cime, solcate da impetuosi e fischianti venti, dove il candido manto di neve e ghiaccio aveva impedito anche ogni tentativo di resistenza da parte del grigio roccioso.
-Bene, siamo arrivati. Domani cominceremo la parte più difficile del nostro viaggio, quindi andate a coricarvi, ragazzi miei, che domani ci aspetta una giornata così lunga e faticosa da

farvi rimpiangere di aver voluto intraprendere questa avventura- disse Xsaria, e, sdraiatasi su uno dei rimanenti soffici e verdi manti d’erba, cominciò a dormire. I due giovani non si lasciarono cadere nell’abbraccio di Morfeo per alcune ore, nonostante la stanchezza. Passarono il tempo a fissarsi negli occhi e a imparare a memoria ogni piccolo e minuscolo particolare del viso dell’altro. Parlarono, anche. Discorsero per l’ennesima volta di come Romoaldo li aveva spodestati e di come dovevano punirlo, di come avrebbero passato il tempo quando fossero tornati sul trono. Per la prima volta Mìricolas descrisse ad Armise la sua vita nell’altra dimensione, com’era la città dove viveva, l’università, la vita notturna, i coetanei. La ragazza ne rimase così tanto affascinata ed attratta da farsi promettere solennemente, quasi giurare, di essere portata lì in viaggio almeno una volta.
La mattina dopo la strega li svegliò di buon’ora e si irritò al vedere le loro espressioni stanche e assonnate perché aveva capito che le sue raccomandazioni della sera precedente non erano state seguite. Nonostante questo il viaggio riprese come programmato.
Imboccarono un sentiero abbastanza largo e sterrato che si vedeva essere artificiale. Infatti la base era composta da roccia ridotta in piccoli sassolini tra i quali, ogni tanto, spuntava un fiore. Le prime ore di viaggio furono tranquille, Mìricolas guardava il panorama e Ihlys allontanarsi sempre di più, Armise coglieva fiori e ne faceva una corona e Xaria procedeva a
passo svelto, fermandosi di tanto in tanto per voltarsi e gridare ai suoi giovani e spensierati compagni di viaggio di non perder tempo in sciocchezze come quelle e di affrettare il passo.
Man mano che salivano il paesaggio si modificava rapidamente. Arrivati al punto in cui il sentiero arrestava la sua salita e continuava il suo percorso in piano, non si riconosceva nell’ambiente neanche un carattere di quello della base della montagna. La stradina era divenuta così stretta da poterci passare solo una persona per volta e un freddo manto bianco la ricopriva del tutto. Nemmeno un minuscolo fiorellino riusciva più a vincere gelo e roccia, così da rendere i viaggiatori gli unici elementi non candidi della scena. Oramai guardare in basso non serviva più a niente: si vedevano solo nuvole e nuvole fino a che l’occhio poteva scorgere. Guardare in alto era più che mai sconsigliato: forti venti accarezzavano instabili massi, che minacciavano di piombare di sotto da un momento all’altro. I nostri amici erano infreddoliti e ricoperti di neve: Xaria procedeva con passo veloce quanto il tempo glielo permetteva, pronunciando qua e là qualche strano incantesimo per rendere più agevole il tragitto; Armise procedeva lenta e terrorizzata tra le braccia dell’infreddolito Mìricolas, che aveva donato anche la sua giacca alla sua amata perché non sentisse freddo. Ad un tratto, Xaria si fermò di colpo e si fece raggiungere dagli altri due, -Guardate- disse –Il sentiero è interrotto, ci deve essere stata una frana. Non possiamo proseguire per questa strada-. Così dicendo indicò una vasta frattura tra due parti della stretta stradina distante forse dieci minuti di cammino. –Che faremo ora?- chiesero in coro i due fidanzatini, -Ora abbiamo due possibilità- rispose con tono serio la strega –O proseguire per questa strada e, arrivati là, scalare la roccia fino a raggiungere l’altra parte della spaccatura o tornare indietro e aggirare la base di Lathos. Cosa preferite fare?-. I due si guardarono con aria interrogativa e poi, rivolgendo lo stesso sguardo alla fattucchiera le chiesero –Quale ci consigli?-, la donna rispose –Entrambe le vie sono ugualmente pericolose e dure cari ragazzi. Scegliendo di attraversare l’ apertura arrampicandosi si corre il rischio di precipitare giù dove non si può mai esser ritrovati mentre tornando indietro e percorrendo la base della montagna si rischierebbe di incontrare le spie di Romoaldo-. Armise e Mìricolas si fissarono in silenzio e

poi proferirono ad una sola voce –Procediamo per il sentiero- e così i tre continuarono a camminare ed arrivarono al buco. Era veramente un’enorme interruzione del sentiero e, un sasso lanciato da Mìricolas, non manifestò con alcun suono il suo atterraggio. Facendo finta di aver sentito il tonfo, infreddoliti, affamati e un po’ spaventati, i nostri cominciarono ad attraversare la spaccatura come scalatori, appigliandosi con mani e piedi ad ogni appoggio possibile. Più di una volta rischiarono di cadere, più di una volta le rocce alle quali si erano attaccati, che sembravano così solide e dure, avevano ceduto rischiando di portare con sé nel loro viaggio verso il suolo anche il carico umano che avevano ma, grazie a coraggio, fortuna e anche un po’ di magia, riuscirono ad arrivare dall’altra parte. Da qui il viaggio procedette come prima fino all’arrivo dalla parte opposta di Lathos, al tramonto dello stesso giorno. –Eccoci finalmente arrivati- disse Xaria, -Ci siamo quasi, guardate ragazzi- e indicò un mucchietto di case all’orizzonte, appena illuminate dalla luce rossa dell’ultimo sole, -Quella è Baramist, capitale del regno di Eldoras, meta del nostro lungo
viaggio-, -Vuoi dire, strega, che non attraverseremo più boschi abitati da luci e fredde montagne?!- chiese Armise, -Si, cara- rispose Xaria –Ma là dovrete affrontare pericoli peggiori, sono tante le misure di sicurezza instaurate da Romoaldo per impedire che qualcuno legato alla famiglia reale ritorni a Baramist. Dovrete stare estremamente attenti e la maggior parte delle volte io non ci sarò per venirvi in aiuto ma ora
dormite e riposatevi-, -Va bene Xaria, ma prima una domanda. Tu, non ci aiuterai a compiere questa difficile impresa?- chiese Mìricolas, a metà tra il sonno, l’irritazione e la sorpresa. -Certo che vi aiuterò- ribattè la strega –Ma non sarò sempre con voi. Vi preparerò tutte le pozioni di cui potreste aver bisogno, vi dirò cosa fare, vi guiderò col pensiero nel caso voi vi perdeste, ma non vi accompagnerò con la mia presenza durante i viaggi nella città. Sarebbe troppo pericoloso per me, mi conoscono in troppi e ancora ora molti si ricordano il mio viso mentre il vostro oramai è caduto nell’oblio-. Detto questo si mise a dormire e i due ragazzi non tardarono ad imitarla.

QUATTRO

Il giorno seguente i tre si svegliarono con la chiara luce dell’alba e non ci misero molto a mettersi in cammino. Il viaggio dai piedi della montagna alla città non fu niente in confronto a quello affrontato in precedenza, i nostri dovettero solamente dovuto nascondersi un
paio di volte per evitare di essere visti e forse riconosciuti dalle guardie reali.
Arrivati a Baramist si resero conto che avevano avuto una fortuna enorme: era giorno di mercato. Sarebbe stato molto facile mimetizzarsi tra la folla che riempiva le strette e labirintiche vie della città. Mentre camminavano, i nostri compagni di viaggio si guardavano attorno con grande curiosità, vedendo cose da loro mai viste o oramai dimenticate: le strade, già strette, erano rese ancor più anguste dalle bancarelle sporgenti al di fuori dei negozi, quel giorno chiusi; si udivano nell’aria urla di venditori, che volevano convincere i passanti, potenziali clienti, della superiorità delle proprie merci rispetto alle altre, miste a commenti di acquirenti pronunciati a voce molto alta e versi di animali sottoposti a chissà quali torture; la folla che affollava le vie era talmente tanta da rendere praticamente impossibile passare senza fermarsi ogni due metri o perdersi improvvisamente di vista.
Ad un tratto, mentre Armise, nonostante i ripetuti divieti e raccomandazioni di Xaria, era

completamente assorta nella prova di una collana di turchesi e lapislazzuli e Mìricolas era immerso nei suoi pensieri e considerazioni su quella nuova, eccitante e varia città a lui sconosciuta ma già così estremamente familiare, tutto si fermò. In un attimo le grida smisero di risuonare nell’aria e si creò un silenzio così profondo che anche un solo flebile colpo di tosse avrebbe potuto romperlo irreversibilmente. In un istante la gente smise di passeggiare qua e là per le bancarelle e si fermò, guardando verso il centro della strada nella direzione dove, credette Mìricolas, si trovava il suo inizio. Si udirono lontani e vaghi squilli di tromba. Piano piano i suoni si avvicinarono, diventando sempre più nitidi, e, ad un certo punto, dalla curva in fondo alla strada spuntarono dei suonatori reali di tromba, con tanto di calzamaglia blu e mantello rosso, seguiti dalla portantina reale, sorretta dai portatori, schiavi neri dal fisico sviluppato e muscoloso, dai capelli ricci e lo sguardo fiero.
-E’ Romoaldo- sussurrò velocemente in un respiro la strega ad Armise e Mìricolas, -E’ qui per testare la bontà delle merci o, come preferisco dire io, pranzare senza spendere un soldo. Ma non è questo il posto per voi, né tantomeno per me. Andiamo via- e, così dicendo, strattonò il ragazzo per un braccio. –Ma Xaria, lasciaci almeno dare un occhiata all’usurpatore del nostro trono- disse Armise alla strega con sguardo di supplica –Così il mio amato conoscerà almeno il volto che ha causato il suo viaggio- e, così dicendo, lanciò una breve ma intensa occhiata piena di ardore al ragazzo, che non poté fare altro che ricambiarla. Le parole della ragazza convinsero Xaria che permise ai due di restare finché Romoaldo non fosse sceso dalla portantina, rischiando, lei disse, la sua stessa vita perché poteva essere riconosciuta in ogni momento.
Intanto la carovana si era arrestata nel punto più largo della via e la portantina era stata posata a terra. Si vide appena la tendina di raso rosa muoversi, prima che fosse aperta e svelasse l’interno: su cuscini foderati di velluto color porpora era seduto di schiena un uomo abbastanza alto, robusto, dai lunghi capelli mossi color nocciola sciolti, che indossava una giacca ecrù trapuntata qua e là d’oro. Con un movimento lento e un tantino svogliato, l’uomo si voltò per scendere: apparvero a tutti un viso quadrato e duro, due occhi scuri e profondi e due labbra serrate incorniciate da due folti e lunghi baffi scuri.
Scendendo dalla portantina l’uomo fece, casualmente ma di proposito, notare a tutti un paio di scarpe bianche lucide come uno specchio sotto i pantaloni color della giacca e disse –Vedete? Vedete tutti? Come sono lucide le mie scarpe nuove, mi ci potrei addirittura specchiare…è stato molto bravo Erthy, ha assecondato in tutto e per tutto il mio desiderio di aver scarpe lucenti di luce propria. Le ha lucidate talmente bene che, a forza di leccarle, si è consumato la lingua e gliel’abbiamo dovuta tagliare…che peccato. Comunque, che vi sia chiaro: chiunque osi propormi merci di scarsa qualità o contestare il mio giudizio, passerà pene ancora peggiori di questa-. Dopo che ebbe pronunciato questa sentenza scese le scale in un irreale silenzio, osservato da visi impauriti e preoccupati. A questo punto un –Ragazzi, è ora di andare. Via!- pronunciato dalla strega, unito ad un suo forte strattone alle mani legate fra loro dei due ragazzi, giunse opportuno per svegliare i due dal sonno della paura nel quale erano caduti, pietrificati, all’udire quelle parole. In fretta e senza farsi notare, i tre sparirono dalla scena del mercato nascondendosi dietro colonne, pezzi di muri e portoni. In un attimo si ritrovarono dalla parte opposta della città, vuota e tranquilla. Là trovarono un locale vuoto e nascosto del quale fare la propria abitazione per quei giorni. Era composto da soltanto una stanza ma era abbastanza grande per contenere tre persone e tutte le cose strane e i vecchi

libroni polverosi che la strega si era portata dietro in quella sua grossa e gonfia borsa che non aveva mai voluto lasciare in mano di altri, neanche nei suoi momenti di maggiore stanchezza. Non appena ebbe deciso che il locale sarebbe stato la loro provvisoria dimora, Xaria aveva aperto la sacca e aveva cominciato a estrarre vecchissimi volumi coperti di polvere, dalla copertina scura di pelle e dai titoli impronunciabili; alambicchi di forme strane e impensabili; vasetti contenenti liquidi o solidi e una piccola ciotola di porcellana, con anche il suo pestello; e aveva iniziato a sistemarli in un angolo del locale sentenziando –Ragazzi, non provate ad avvicinarvi a questo angolo né tantomeno a toccare o prendere in mano uno di questi oggetti. Non è roba per voi e dovete starci lontano. Che la sventura cada sopra voi se disobbedirete ai miei ammonimenti- e, così dicendo, pronunciò un’arcaica e strana formula in una lingua incomprensibile e sconosciuta.

CINQUE

Passarono giorni e giorni, nei quali Armise e Mìricolas andavano in giro per la città per conoscerla meglio e scoprire ogni suo piccolo nascondiglio e antro buio dove sottrarsi alla vista delle guardie reali in caso di inseguimento, mentre la strega viveva chiusa e occultata nel locale segreto dove abitavano, preparando le pozioni magiche che sarebbero potute servire ai due ragazzi durante la loro missione.
Passate più di due settimane giunse l’atteso e temuto giorno della missione. Si trattava di una bella giornata, il che rendeva ancora più difficile ai due il doversi per forza separare.
Xaria dotò Mìricolas di tutti gli infusi preparati nei giorni precedenti, delle istruzioni su come usarli e del pugnale con cui uccidere Romoaldo e ridare la libertà al loro popolo, poi, lei e Armise accompagnarono il ragazzo fino davanti le mura della fortezza del signore del regno. Era questa imponente e minacciosa nell’aspetto. Le pareti erano spesse più di un metro e alte fino al cielo, in cima c’erano aguzze guglie e circa ogni trecento passi c’era un grosso torrione, alto più delle mura. A rendere tutto l’insieme ancora più temibile, centinaia di guardie armate di tutto punto sorvegliavano la fortezza in ogni parte e l’entrata, oltre ad essere vigilata da dieci di questi soldati, era anche protetta da una pesante grata metallica.
Arrivati al cospetto della roccaforte, Xaria fece le sue raccomandazioni a Mìricolas –Stai attento, ragazzo mio. E’ pieno di pericoli, là dentro, per te. Usa tutte le pozioni che ti ho dato, se ne avrai bisogno, ma stai attento a non abusarne. Molto spesso la magia si ritorce contro chi la adopera- e gli diede un caldo abbraccio. Armise invece gli rivolse uno sguardo triste ma speranzoso e non fu capace di dirgli niente a causa delle lacrime che già minacciavano di uscire dagli occhi e di scorrere come torrenti sulle guance lisce, e si limitò a dargli un bacio abbracciandolo più stretto di quanto avesse mai fatto.
E così, il nostro caro Mìricolas, si ritrovò a dover intraprendere una pericolosissima missione più grande di lui, che neanche nei sogni più fantastici e irreali avrebbe mai immaginato di essere predestinato a compiere.
Si incamminò lentamente verso il palazzo, osservandone attentamente la struttura e i meccanismi di difesa e maledicendo ogni passo sempre di più la sua decisione di aiutare la povera ragazza dei sogni. Eh già, perché stava rischiando la vita per persone conosciute da

relativamente poco e delle quali non sapeva praticamente niente, per salvare un regno del quale non aveva memoria e mai avrebbe immaginato l’esistenza. Ed era solo per questo che
stava rischiando la vita, la vera vita. Si, perché quando scalando la montagna aveva urtato una roccia provocandosi una ferita, era sangue vero quello che era fuoriuscito dalla ferita e il dolore che aveva sentito era del tutto reale.
Mentre era immerso in questi suoi pensieri, sentì un uomo, probabilmente un mercante, dire ad un collega che stava aspettando di essere fatto entrare nel palazzo perché aveva delle merci preziose da vendere a Romoaldo. “Un’occasione come questa non va fatta sfuggire” pensò il ragazzo andandosi già a nascondere sotto il carro del commerciante, incastrandosi tra i legni formanti la struttura in modo tale da non cadere e non esser visto. Dopo parecchio tempo il barroccio cominciò a muoversi. Mìricolas sospirò, “Ci siamo” disse fra sé.
All’ingresso due guardie armate perquisirono il carro da cima a fondo e, grazie alla sua ingegnosa trovata di nascondersi sotto, non fu scoperto. Così, carro, Mìricolas e conduttore, complice incosciente, penetrarono nella fortezza.
Appena il carro rimase fermo per almeno una decina di minuti il ragazzo si decise a scendere.
Messa la testa fuori dalla parte inferiore del carretto in cui era nascosto, gli apparve un mondo nuovo e sconosciuto. Non aveva mai visto interni di castelli come quello se non in vecchi film d’avventura medioevale, e anche mettendo insieme tutti i ricordi che aveva di quelli non riusciva proprio a rendere nota neanche una delle cose che vedeva. Si trovava in una piazza quadrata, enorme, lastricata di ciottoli grigi e irregolari. Al suo centro c’era un grande pozzo di pietra grigia: un omaccione alto e peloso, vestito di una logora e sudicia uniforme simile a quella dei suonatori di tromba visti settimane fa, che attingeva l’acqua a secchiate ognuna di almeno trenta bicchieri. Nel piazzale non era solo: c’erano molte guardie armate del tipo che aveva visto alla grata e di ronda sulle mura, con visi duri e occhi scuri; dame vestite a festa spettegolanti fra loro e servi tutti indaffarati nei propri lavori da non aver neanche notato che non era uno di loro e chiedergli già aiuto. Quello che per primo si era accorto di lui e gli aveva appioppato una faccenda era un tipo basso e tarchiato, con un viso docile e una voce
dura, che gli aveva chiesto di entrare negli appartamenti del signore per domandargli di che colore volesse i tendaggi per la festa della sera e gli aveva dato il ciondolo che lo avrebbe fatto entrare. Mìricolas non voleva crederci, era troppo bello per essere vero. Nessuno lo aveva riconosciuto e ora aveva anche il lasciapassare per la dimora del suo acerrimo nemico…allora Xaria aveva ragione! Nessuno si ricordava né di lui né del suo volto, tanto da scambiarlo per un servo, “In effetti dalle mie vesti sporche e lise non si direbbe proprio che io sia il re spodestato giunto qui per riprendersi ciò che gli spetta di diritto” rifletté in silenzio tra sé il ragazzo, e affidargli addirittura una commissione così banale per loro ma così utile per penetrare nel castello per lui. Pensando ciò si mise in cerca dell’entrata della dimora di Romoaldo tra i numerosi portoni chiusi e sorvegliati da guardie e i lunghi e labirintici porticati. Si trovò a passeggiare tra magnifici giardini in fiore, gallerie oscure e infinite e piazze simili alla prima ma sempre più affollate e, dopo così tanta strada che gli sembrò fossero passati giorni interi ma in realtà non erano trascorse che tre ore o poco più, trovò finalmente l’entrata degli appartamenti di Romoaldo. Era questo un enorme portone, alto circa tre uomini di statura imponente e largo una decina di passi, tutto di marmo con venature rosa, incorniciato da semicolonne scolpite come per rappresentare fiori irreali e irrealistici

incastonati in fantastici ed immaginari gioielli. “E’ sicuramente questo” si disse Mìricolas arrivato al suo cospetto, “Guarda qui, che belli questi bassorilievi, molto fantasiosi e ben scolpiti. Si tratta bene il signorotto usurpatore, eh? Vediamo di fargliene passare la voglia di questo regno” e, così dicendo, sfiorò con le dita la ricca elsa del pugnale col quale era destinato a porre fine alla vita di Romoaldo.
-Cosa ci fai tu qui?- domandò una voce dall’alto. Mìricolas alzò lo sguardo e vide un uomo alto almeno due spanne più di lui, di corporatura robusta che lo guardava con aspetto minaccioso e i pugni posati sui fianchi. –Sono qui per parlare col signore del castello- rispose il ragazzo, cercando di far tremare la voce il meno possibile e nascondendo il pugnale sotto il mantello.
-E cosa gli vorresti chiedere, di grazia?- gli chiese la guardia a sua volta imitando il tono della sua voce, -Quello che devo domandargli sono cose confidenziali e riguardano la festa di questa sera- ribatté prontamente il giovanotto con tono sicuro e deciso. -Ah ah. Abbiamo qui un confidente del signore…ce l’ hai il lasciapassare?-, allora Mìricolas gli mostrò il ciondolo d’oro lavorato che gli aveva ceduto il servo nella piazza. L’uomo scrutò il grande pendaglio da cima a fondo, in cerca forse di un qualche segnale di contraffazione, e, non avendo trovato niente di non regolare, lasciò passare il ragazzo con aria delusa, grugnendogli dietro –Sbrigati!-.
Improvvisamente Mìricolas si trovò in una reggia: pavimenti in pietra chiara lucidissima, pareti affrescate con appesi grandi quadri raffiguranti sempre lo stesso soggetto o estesi arazzi provenienti da chissà quali parti di quello strano mondo. Più camminava più si convinceva di essere fatto per vivere in quella reggia. Effettivamente, chi può dire di non essere nato per vivere in un castello da signore?
Passeggiando per corridoi e saloni enormi e freddi incontrò camerieri, servitori, paggi, consiglieri, dame vestite di porpora e oro. Notò che tutti avevano lo stesso viso imbronciato e la stessa aria seccata: probabilmente le parole pronunciate ad alta voce che aveva sentito divenire sempre più nitide man mano che aveva progredito nel suo itinerario attraverso l’umile dimora di Romoaldo erano proprio del signore del castello e quelle persone avevano appena terminato un colloquio con lui. “Non deve essere molto trattabile oggi. Il che rende il tutto più
difficile” pensò Mìricolas e gli parve opportuno informarsi sull’umore del sire da uno dei numerosi servitori simili a lui che incontrava nel suo cammino. Appena uno di quelli sbucò da una porta, il ragazzo gli si avvicinò e gli domandò, cercando di sembrare più naturale possibile, –Com’è oggi il padrone?-, -Non ne parliamo- rispose quello –E’ più intrattabile del solito oggi. Il ragazzo che avrebbe dovuto venire ad informarsi sul colore dei tendaggi è in ritardo e lui è parecchio irritato. Oh, non è che sei tu?- continuò il servo. –Già…ehm…mi sono perso, sono nuovo- rispose Mìricolas con un po’ di vergogna, -Ahh…ecco perché. Va beh, l’importante è che ora ti spicci ad andare da lui, scusarti e prendere le consegne. La sai la strada vero?- gli domandò il servitore incontrato, -Veramente no…- ribatté il giovane con aria di sempre più vergogna. -Va bene, ti accompagno io- propose il domestico al nostro giovanotto, il quale non tardò ad annuire energicamente. Attraversarono altrettante stanze e corridoi quanti ne aveva attraversati Mìricolas in precedenza e, durante il tragitto, né il servo né lui aprirono bocca, l’unica


parola in più che si scambiarono fu un frettoloso –Siamo arrivati. Ecco qui la porta della stanza privata del sovrano. Entra veloce, scusati sino a finire il fiato e prendi le consegne- detto dal servo a Mìricolas davanti all’imponente ingresso delle stanze personali di Romoaldo.
Il nostro ragazzo salutò la sua guida e si apprestò a bussare. Dall’interno giunse un rabbioso –Chi è?-, -Sono il vostro servitore incaricato di informarmi sul colore che gradireste per i tendaggio. Mi scuso infinite volte per il ritardo, ma mi sono perso- non tardò a rispondere Mìricolas con riluttanza, un –Entra, presto- grugnito con rabbia giunse improvvisamente dall’interno. Il ragazzo tirò con paura la maniglia, aprì la porta, entrò nella camera e, sotto cenno di Romoaldo, richiuse velocemente il portone dietro le sue spalle.
La camera del signore era grande come un moderno appartamento. Sul pavimento erano distesi tappeti di ogni genere e fattura, le pareti e il soffitto con volte a botte erano affrescati con pitture di angeli eterei e biondi. Al centro della stanza v’era un grande letto a più di due piazze, ricoperto da cuscini grandi, piccoli, colorati, monocromatici, ricchi, lussuosi, poveri, semplici. Il copriletto, per quanto se ne riusciva a vedere al di sotto dei cuscini, era color del cielo in una notte senza luna. Sopra il letto c’era un sontuoso baldacchino di legno dorato al quale erano appesi lunghi veli coloratissimi che scendevano a offuscare leggermente il letto alla vista degli esterni.

SEI

Romoaldo sedeva imbronciato su una delle numerose poltrone presenti nella camera. Indossava una camicia con volants bianca e allacciata fino al collo, pantaloni scuri con bordi argentati e scarpette da ballo nere e lucide come uno specchio. Gli occhi, già duri e severi normalmente, erano resi ancora più arcigni dall’espressione imbronciata del viso.
-Come mai questo ritardo, giovanotto?- chiese irritato il padrone di casa, -Mi scuso ancora e ancora mio signore e padrone- non tardò a rispondere Mìricolas con una perfetta aria da servetto dispiaciuto e impaurito, -Mi dispiace veramente tantissimo ma non conosco ancora bene questa fortezza e mi sono perso più e più volte mentre cercavo di arrivare al vostro palazzo e poi mentre camminavo nella reggia in cerca della vostra stanza- continuò il ragazzo. Romoaldo lo guardava con aria giudicante e sospettosa, evidentemente non era più di tanto convinto delle scuse fatte dal giovane davanti a lui ma, nonostante questo, disse –Allora, non perdiamo altro tempo. Devo dirti che non sono contento della tua condotta e lo terrò presente. Non sei completamente scusato, quindi, e d’ora in poi dovrai comportarti in modo da farti perdonare e non farmi mai più arrabbiare, intesi?- fece una piccola pausa, talmente breve da non lasciare a Mìricolas neanche il tempo di annuire, e continuò –Per questo voglio concederti un’altra opportunità e darti fiducia affidandoti le preziosissime informazioni sul colore e la stoffa dei tendaggi. Dunque, i tendaggi dell’ingresso li voglio di velluto porpora, quelli del salone dei magistrati di velo nero e azzurro, quelli del salone delle dame sposate di seta verde, quelli del salone della dame ancora nubili saranno bianchi castità, non importa la stoffa, e quelli del salone per gli uomini saranno arancio. Capito? Spero che non ci sarà bisogno di dirtelo una seconda volta- così dicendo si era rivolto al ragazzo con tono intimidatorio e sguardo minaccioso, -No, no- si affrettò a rispondere Mìricolas e, mentre si avviava verso l’uscita, aggiunse –Anche perché non ci sarà nessun tendaggio né festa, mio

caro usurpatore-. Così dicendo si era voltato verso Romoaldo, aveva sguainato il pugnale e ora lo puntava verso l’altro con fare minaccioso. –Tu? Credevo di averti mandato alla terra del non ritorno. Come hai fatto a tornare? A infiltrarti nella mia fortezza? A introdurti nel mio palazzo? Parla!- urlò l’usurpatore, -Non mi sembra che sia proprio tu quello con la possibilità di far domande, ora. Fai tu, se fossi in te, con un pugnale puntato alla gola e un re spodestato molto arrabbiato che lo regge, smetterei di recitare la parte del monarca rigido e severo e comincerei a fare ciò che ti dico io- ribatté Mìricolas avvicinandosi sempre più fino a mettere a contatto la lama affilata dello stiletto con il chiaro collo del signore, -Guardie, guardie!- urlò l’altro, con la trachea sempre più compressa dalla pressione del coltello, -E’ inutile che chiami le tue guardie. Mentre venivo qui ho sparso una pozione soporifera sui muri di tutto il palazzo.
Ora sono tutti nel mondo dei sogni e molto presto sarò l’unico qua dentro con gli occhi ancora aperti. Arrivederci all’inferno mio caro- disse il ragazzo e, mentre pronunciava questa sentenza di morte, affondò tutto il pugnale dentro il collo del nemico, fino a quando la punta non comparse dall’altra parte, e poi lo conficcò più e più volte nel petto, sul cuore, come gli aveva ordinato la strega. In un solo attimo tutto il sangue che l’uomo aveva in corpo si sparse sul velluto verde scuro della poltrona e sul suo viso si dipinse prima un’espressione di dolore e poi una di morte.
Compiuto questo atto, Mìricolas guardò un istante il l’uomo da lui assassinato e riuscì addirittura a provare pena per lui. Vide le sue mani e le sue vesti sporche di sangue, vide il pugnale divenuto rosso e sentì un odore di morte diffondersi nell’ambiente. Poi sentì anche delle risate.
Malefiche risate. E si facevano sempre più vicine. Da due ferite del morto comparvero la strega e Armise, entrambe ridenti. Solo che sembravano strane, il volto della ragazza aveva perso la sua dolcezza e attorno a Xaria si intravedeva un alone verde.

SETTE

-Grazie, davvero grazie ragazzo mio. Non so come avremmo fatto senza di te- cominciò la strega, -Senza il tuo aiuto non saremmo mai riuscite ad impossessarci del regno. Sai, era da molto tempo che provavamo a spodestare l’innocente monarca Romoaldo. Prima avevamo tentato con le buone poi, visto che lui non ne voleva sapere di cederci il trono, avevamo provato con le cattive. Niente da fare. Allora abbiamo pensato ad un abitante della terra reale e abbiamo trovato te. Ti abbiamo fatto innamorare della bella e angelica Armise e ti abbiamo attirato qui con la storiella che conosci. Tante grazie, Mìricolas, di cuore. Davvero. Senza te il trono da noi tanto sognato ad agognato non sarebbe mai finito nelle nostre grinfie- continuò la donna guardando dritto negli occhi sempre più increduli e storditi del povero ragazzo. –Intendi dire che niente di quello che mi avete fatto credere è vero? E gli uomini scortesi? La cattiveria e perfidia di Romoaldo?- domandò incredulo il giovane, -Noi preferiamo dire che erano bugie a fin di bene, ma se la vuoi mettere così…hai ragione. Però, sei più intelligente di quanto avessi mai immaginato…- rispose tranquilla la ragazza, -Tutte le cattiverie che hai visto dagli abitanti di questo paese erano tutte illusioni create nella tua mente dalla pozione che ti
abbiamo fatto bere per arrivare qui- continuò lei sempre più calma. –E ora cosa ne sarà di

me?- domandò sfiduciato il ragazzo. –Domanda intelligente la sua. Che ne facciamo del suo corpo inutile ora?- disse Xaria rivolta ad Armise, -Lo uccidiamo?- continuò, -No, strega cara. Ucciderlo no. Ci è stato di grande aiuto, in fondo. E poi è così carino….imprigioniamolo- propose la ragazza. –Già, in effetti a che pro ucciderlo? Per ritrovarci un cadavere in più da smaltire? No, molto meglio la prigionia- affermò la donna, e, rivolto a Mìricolas, aggiunse –Che tu sia imprigionato. Che manette ti cingano mani e piedi e catene ti leghino al muro. Che tu passi tutto il resto della tua vita in una buia e umida prigione, nutrendoti dei pastoni che ti verranno dati- e, in un attimo, il ragazzo si ritrovò incatenato ad una parete di un’ampia prigione buia e fredda, con una piccola finestrella in cima all’alto muro come unica fonte di luce.Fatto questo, le due donne si apprestarono a pronunciare incantesimi su incantesimi per far cadere tutto il popolo sotto il loro dominio e trasformare il ridente e spensierato vero regno di Eldoras nella landa desolata e ostile che volevano e che avevano fatto credere a Mìricolas che fosse.

OTTO

Nella prigione il ragazzo ebbe molto tempo da passare solo con sé stesso, riflettere e pensare. Non riusciva proprio a perdonarsi di essere caduto nel tranello tesogli dalle due streghe e di essersi reso autore materiale della caduta di Eldoras nella sventura. Per quanto ci avesse provato, ripetendosi che lui lo aveva fatto credendo di essere nel giusto e che non poteva sapere che lo stavano ingannando con tutte quelle storie, alle quali aveva creduto ciecamente, gli tornavano sempre in mente le raccomandazioni che la madre gli faceva le prime volte che usciva da solo: “Non dare confidenza agli sconosciuti, tesoro mio. Per quanto possano sembrarti ben intenzionati e convincenti, tu non sai se sono sinceri o solamente degli ottimi attori che hanno pensato di approfittarsi di un ragazzino solo”. Lui, accecato dalla passione per quella ragazza, aveva dimenticato quegli ammonimenti e si era lasciato convincere dall’ottima recitazione delle due donne. Erano state furbe, pensava. Sicuramente, conoscendosi, non avrebbe abboccato così facilmente se, per convincerlo, avessero mandato nei suoi sogni un ragazzo recitante la parte del fratello spodestato. Infatti, avevano mandato la bellissima e affascinante Armise. E lui aveva abboccato all’esca di una vita da monarca amato e rispettato con, al suo fianco, la ragazza più bella e dolce che avesse mai incontrato come un pesce abbocca se sull’amo mettiamo un grosso verme. Che sciocco, pensava. Non avrebbe mai creduto di poter cadere in un tranello come quello, si era sempre reputato un intelligentone superbamente furbo capace di annusare l’imbroglio a chilometri di distanza. E invece…ora capiva che in tutta la sua vita si era sempre sopravvalutato e che, per nascondere l’inganno ai suoi occhi, erano bastati un regno promesso e una bella ragazza. Soprattutto avevano giocato, sulla sua decisione di bere la pozione, la straordinaria bellezza di Armise e i suoi comportamenti che dicevano “vieni amore, nel nostro regno. Vivremo felici e contenti se riconquisterai il nostro trono”. Ecco, era bastata la promessa di avere la bella streghetta al suo fianco per il resto dei suoi giorni per farlo abboccare all’amo. Niente di più semplice, pensava, per far abboccare un ragazzo timido e impacciato con l’altro sesso come lui. Non aveva mai pensato che una ragazza potesse, spontaneamente, provare qualcosa per lui oltre l’amicizia ed ecco che una bellissima fata veniva nei suoi sogni e gli diceva di amarlo. Tutto


troppo semplice e scontato: se ne era automaticamente innamorato, tanto da cadere nella sua tela e seguirla nel mondo dei sogni. Ed ora se ne stava seduto lì, nel freddo tetro di quella buia prigione, incatenato ad un muro spesso e duro, rimpiangendo tutto quello che aveva fatto, dalla decisione di bere l’infuso a quel giorno.

NOVE

Mentre era immerso in quei pensieri autolesionisti, la porta della cella si aprì, mostrando il suo carceriere che sbatteva dentro un uomo alto, dai capelli e gli abiti grigi. Chiuso il portone, l’uomo lo degnò dei primi sguardi e sorrisi. Aveva un viso anziano e gentile, due spenti occhi grigi e due pallide labbra sottili. Il corpo era magro, quasi filiforme, sotto gli abiti pesanti di tela grezza. –Tu come mai sei qui?- gli chiese il vecchio poi, -Non ho voglia di parlarne- gli rispose Mìricolas nascondendo il volto all’ombra dell’angolo più buio del locale, -Guarda che non devi vergognarti di dire cosa hai fatto. Non devi vergognarti di aver commesso qualche atto fuori legge, da quando quelle due megere si sono impadronite del potere, l’unico modo per sopravvivere è violare la legge in continuazione. Io per esempio sono un mago, uno stregone per la precisione. Sai la differenza tra mago e stregone? No, eh?Allora, uno stregone è un mago con più esperienza, che compie quasi tutte le sue magie con la forza del pensiero e che ha la facoltà di tramandare i propri poteri alle altre persone, in caso fossero meritevoli. Capito ora? Allora, quelle due streghe dei miei stivali, che fanno finta di governare questo paese mentre invece lo stanno conducendo alla distruzione, hanno decretato che le uniche autorizzate a fare uso delle arti magiche fossero loro. Evidentemente avevano sentito voci sul piano che stavamo tramando noi stregoni e maghi per spodestarle. Nonostante quel divieto, noi abbiamo continuato imperterriti a trovarci e complottare. Così una sera abbiamo sentito bussare alla porta: era uno di noi che, venduto al nemico per l’autorizzazione ad usare la magia, ci attirava alla porta e ci conduceva alla morte. Io, avendo fiutato l’inganno, non mi avvicinai e fui l’unico a rimanere vivo. Tentai la fuga ma lui, con un incantesimo potentissimo probabilmente insegnatogli dalle due streghe, mi bloccò e mi privò dei miei poteri magici. Fu facile così catturarmi e spedirmi qui. Capito? Quindi non vergognarti, dimmi pure il motivo della tua permanenza qui- continuò l’uomo imperterrito. Udite le sue parole, il ragazzo prese coraggio e disse –Ho fatto una cosa terribile che nessuno, neanche tu, potrebbe perdonarmi e che è troppo tardi per riparare-, -Continua, mi incuriosisci. Ti prometto solennemente che, qualunque cosa mi dirai, non ti succederà niente- lo incoraggiò lo stregone e, non senza interrompersi spesso per inghiottire le lacrime, Mìricolas gli narrò tutta la storia. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il mago ascoltò attentamente la narrazione, senza perdersi neanche una sillaba e facendo domande, le quali molte volte rimanevano senza risposta perché il ragazzo scoppiava in un pianto senza fine.
Terminato il racconto, lo stregone silenziosamente guardò a lungo Mìricolas in modo serio e scrutatore e poi, dopo aver rimuginato parecchio, disse –Senti, ragazzo mio. Ci ho pensato molto su e mi sembri sincero. Per questo voglio aiutarti. Tu hai detto che non c’è rimedio a ciò che hai fatto ma ti sei sbagliato. C’è e eccome-, -Non scherzare- disse serio il ragazzo, -Non sto scherzando- continuò il mago, -Non sto affatto scherzando. I poteri mi stanno lentamente tornando e credo che tra un paio di giorni avrò forza magica sufficiente per

liberarti e farti scappare. Quando sarai scappato, correrai silenzioso come un gatto fino negli appartamenti delle streghe e lì, con lo stesso pugnale con cui hai assassinato Romoaldo,
porrai fine alle loro inutili vite. Tutto sta nella fiducia che riporrai in me. Se avrai piena fiducia in me, fuggirai di qua e compirai il piano nel modo più semplice possibile, se no, cadrai nelle grinfie dei tuoi carcerieri e a morire sarai tu. Che ne pensi?-. Mìricolas lo guardò incredulo, stava per sorridere quando si ricordò di un piccolo particolare –Sarebbe molto bello, mago, ma il piano è infattibile. Il pugnale me lo hanno sequestrato e ce l’ ha il nostro carceriere. E’ impossibile-, -Niente è impossibile, ragazzo mio- gli disse il vecchio fiducioso –Lo farò cadere nel sonno più profondo che un uomo abbia mai dormito e tu gli sfilerai lo stiletto dalla fodera in cui lo tiene- continuò. A quel punto il giovane non ci vide più dalla gioia e si gettò contro l’uomo per abbracciarlo.

DIECI

I due giorni passarono veloci. Tra insegnamenti del mago su come compiere il piano alla perfezione e simulazioni arrivò inatteso il mattino deciso per dare inizio all’operazione.
Dopo aver ripetuto per l’ultima volta il piano in ogni suo particolare, gli si diede inizio. Compiendo un enorme sforzo mentale, lo stregone prima sciolse Mìricolas dai legami che lo imprigionavano poi fece addormentare il guardiano e infine aprì la pesante porta di ferro.
Deciso e un po’ impaurito, il ragazzo partì al compimento dell’operazione.
Uscì dalla cella e si avvicinò al carceriere, che russava beato e incosciente. Gli aprì la sporca giacca, gli sfilò il coltello e se lo intascò. Poi corse via, più veloce del vento, più deciso del mare in tempesta. Percorsa la strada insegnatagli dal suo compagno di cella, si ritrovò davanti alla sontuosa porta che aveva visto non più di due settimane prima. Con decisione tirò la maniglia e la aprì: trovò le due donne che stavano confabulando. Essendosi accorte di lui smisero immediatamente la conversazione e scattarono in piedi con espressioni scioccate. –Tu?- disse Xaria, incredula e irritata, -Già. Sono qui. In carne ed ossa- rispose ironico il giovane, recitando la parte del “vendicatore accecato dalla rabbia”, come gli aveva suggerito lo stregone, per non far trapelare la sua insicurezza e il suo timore. –Ma come hai fatto? Eri incatenato…rinchiuso…-disse questa volta Armise, con lo stesso tono della compagna, -Molto spesso la magia si ritorce contro chi ne fa uso, diceva uno- ribatté lui, citando una frase sentita una volta dalla strega. Questo fece irritare profondamente le due, che, con rapidi gesti delle mani, gli scagliarono contro tutti i soprammobili presenti nella camera. Ma, sorprendendo le due, il ragazzo respinse ogni cosa che gli veniva addosso nello stesso modo in cui quella gli veniva spedita contro: le due si guardarono stupite e incredule. –Non
ve l’aspettavate questo, eh? Credevate che fossi ancora il ragazzetto stupido e insicuro che ero, vero? Il marmocchio completamente prevedibile e pilotabile che avete conosciuto, eh? Mi dispiace per voi, care mie, ma sono profondamente cambiato in questo periodo di prigionia, così profondamente che non potete nemmeno immaginarvi quanto. Sono più forte e potente di voi due messe insieme, e voglio la vostra morte. Ora, o ve ne andate per sempre da questo regno e vi relegate in una grotta in cima a Ihlys a fare le eremite, o sarò costretto a privarvi della vita. La scelta sta a voi- disse sicuro Mìricolas, ma non fece in tempo a completare questa sentenza di morte che Xaria e Armise avevano già cominciato in silenzio a gettargli contro incantesimi e maledizioni di tutti i generi. Ad un certo punto si sentì soffocare, sempre di più, sempre di più, come se una cravatta invisibile gli stesse stringendo

il collo sempre più stretto. Fortunatamente però il mago gli aveva insegnato un incantesimo capace di contrastare praticamente ogni sortilegio malvagio esistente nel mondo della magia e lo aveva dotato dei poteri magici sufficienti a metterlo in atto, così, concentrandosi e mettendo una parola dietro l’altra mentre l’aria che arrivava ai polmoni era sempre meno, riuscì a contrastare il mortale effetto delle loro stregonerie e a scagliare tutti i malocchi che gli erano stati mandati contro le fattucchiere. Approfittò poi del momento di crisi e smarrimento che aveva creato nelle due donne con questi comportamenti per battersi contro loro e pugnalarne prima una e poi l’altra in pieno petto. Dalle profonde ferite fuoriuscirono delle luci accecanti che culminarono in un lampo inimmaginabile che squarciò il cupo cielo: in un attimo le streghe sparirono e la gioia tornò a regnare su Eldoras, i campi ritornarono verdi e i fiori colorati, il cielo azzurro e il sole splendente, le donne belle e gli uomini cortesi.
Mìricolas si affacciò alla finestra, vide lo spettacolo che gli era sempre stato negato e si
riempì di gioia e stima. Aveva finalmente riportato il paese al suo originario splendore, non gli mancava niente: allegri bambini giocavano spensierati nei prati, donne fiduciose e dagli sguardi ridenti riempivano brocche d’acqua alla fonte locale e uomini dai visi gentili forgiavano ferri di cavallo, era perfetto. Anzi, forse una cosa gli mancava: un capo meritevole in grado di comandarlo, proteggerlo e mantenerlo sempre allo stesso sereno splendore. E gli venne in mente lo stregone. Di corsa si precipitò nelle prigioni, liberò tutti i carcerati e si catapultò nella sua vecchia cella: lì trovò il suo vecchio e saggio amico che gli sorrideva. -Mago, ce l’ ho fatta!- esordì, -Ho visto. Complimenti. Non deve esser stato facile, hai avuto un bel coraggio a darmi retta e seguire tutte le mie indicazioni. Però vedi, ne è valsa la pena. Ora va, va a governare il tuo popolo- gli disse complimentandolo il vecchio, -No, non devo andare io a governarlo. Tu, tu devi essere il successore di Romoaldo. Tu, tu sei l’uomo meritevole e capace che deve salire al trono del regno. Se mi cederai il potere, io abdicherò in tuo favore fino a quando sarai così stanco che accetterai il potere, capito?- gli rispose Mìricolas ponendogli sulla testa la pesante e ricca corona che aveva in testa la Xaria.
Il vecchio gli sorrise e, con lo sguardo, accettò l’incarico.
Andarono poi nella camera dove i tre delitti erano stati consumati, si affacciarono alla finestra accompagnati da acclamazioni del popolo e raccontarono tutta la storia dall’inizio. Poi il vecchio e il ragazzo si salutarono e, dicendogli addio per sempre, lo stregone riportò Mìricolas nel mondo reale, dormiente ai piedi del tavolo sul quale aveva trovato la pozione.
-Che ci fai qua, non ce l’ hai un letto per dormire?- gli strillò la gracchiante voce di sua madre, -Scusa mamma- le rispose gentilmente lui, -probabilmente sono diventato un po’ sonnambulo- continuò vestendosi mentre si avviava verso la porta d’uscita, -E ora cosa fai?- gli strillò di nuovo la madre, -Esco, ho voglia di vivere quello che non ho vissuto questi mesi- le rispose già dal pianerottolo.

 

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